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Madri e figlie

Dall’intervento narrativo di Isabel Allende in occasione dell’Anteprima Taobuk del 3 giugno 2017 al teatro Romano di Catania, che ha visto oltre 1500 spettatori accogliere la grande scrittrice cilena. Traduzione di Elena Maria Liverani.

 

Mi è stato chiesto di parlare questo pomeriggio di madri e figlie, di quella complessa relazione sulla quale tanto si è scritto. Quasi tutto quello che è stato pubblicato al riguardo è deprimente: figlie che invariabilmente detestano le loro madri. Rispetto a questo tema, il materiale che ho a disposizione è talmente poco avvincente che il mio psicologo si addormenta durante le sedute con me. Non riesce a credere che adori mia madre e che non la ritenga responsabile di nessuno dei miei traumi. Che cosa penserebbe Freud di una simile anomalia?

In alcune culture i figli hanno molto più valore delle figlie. Le ragazze si sposano e entrano a far parte della famiglia del marito, mentre i figli si fanno carico dei genitori e inoltre portano in dote una moglie, che si mette anche lei al servizio della famiglia. La pratica dell’aborto selettivo ha eliminato milioni di bambine prima ancora che avessero una speranza di vita. In alcuni paesi, come la Cina, ciò ha comportato un deficit di ragazze da sposare e gli uomini devono andarsele a cercare in altri paesi.

Non è il caso della mia famiglia, nella quale noi donne desideriamo avere per prima una figlia e poi non ha importanza chi verrà dopo. Nel corso di generazioni abbiamo creato una catena molto salda di anelli femminili: donne, madri, figlie, nipoti, tutte unite da un indistruttibile cordone ombelicale che resiste nel corso della vita e dopo la morte.

Non ho intenzione di risalire fino alla mia bisnonna, perché questa narrazione non finirebbe mai; vi parlerò invece di mia nonna, perché è stata molto importante nella mia vita anche se morì quando io ero piccola. Si chiamava Isabel Barros ed era così originale che se fosse nata in un’epoca successiva sarebbe stata internata in qualche istituto. Per fortuna sua e dei suoi discendenti, e mia in particolare, suo marito, cioè mio nonno, ammirava tutte le sue stranezze e non permise mai che fosse messa in discussione la sua salute mentale. Isabel Barros era la più piccola di dodici fratelli, la preferita di sua madre, che le permise di crescere con una libertà intellettuale di cui a quei tempi le ragazze non godevano. Stiamo parlando della fine dell’Ottocento, quando in Cile le signorine imparavano a pregare e a ricamare dalle suore e vivevano tra le mura delle loro case. Mia nonna si sottraeva alla severità delle suore e al confinamento all’interno del focolare domestico grazie a un’immaginazione sfrenata, a letture poco appropriate e a una costante ricerca spirituale. Non si trattava di una pratica religiosa, la messa cattolica la annoiava oltremodo, si faceva beffe dei preti e non credeva nell’inferno. Era piuttosto un misto tra Gurdieff, l’animismo e gli esperimenti paranormali, quali per esempio la telepatia e la telecinesi; poteva vedere gli angeli alle prime luci dell’alba ed era in contatto con le anime dei morti. In sostanza, vedeva l’invisibile e sentiva le voci. Oggi la diagnosi sarebbe di schizofrenia, ma a quei tempi si diceva semplicemente che Isabel era una medium chiaroveggente, perché poteva prevedere terremoti – in Cile le scosse sono la normalità –   e anche eventi di minore importanza, come incidenti a causa del traffico o risultati di partite di calcio. Non fu mai in grado, invece, di azzeccare il numero vincente della lotteria e alla roulette perdeva sistematicamente. Si sposò ancora molto giovane con Agustín Llona, di ascendenza basca, un uomo forte, pragmatico, autoritario e gran lavoratore, che rimase affascinato da quella ragazza eterea, che viveva galleggiando tra la terra e cielo.

Agustín comprò a Isabel un tavolo spagnolo di legno massiccio, rotondo, tutto intagliato e con i piedi a zampa di leone per le sue sedute spiritiche. Al tavolo potevano sedersi otto persone e un numero imprecisato di fantasmi. Le anime convocate dalla nonna facevano muovere il tavolo durante le sedute del giovedì: un movimento per dire sì, due movimenti se era un no. Questo tavolo ora è a casa mia. In mia presenza non si è mai mosso grazie a forze misteriose e c’è bisogno di un paio di uomini ben piazzati per spostarlo quando bisogna pulire il tappeto. Ho cercato di usarlo per praticare lo spiritismo, ma senza nessun risultato. Il tavolo rimane immobile e silenzioso come un pachiderma morto. A quanto pare l’unico modo di cui dispongo per mettermi in contatto con gli spiriti è la scrittura.

Vi sto raccontando tutto ciò perché la mia nonna magica mi faceva sedere al tavolo spagnolo del giovedì quando ancora  giravo coi pannolini nella convinzione che in presenza di un essere innocente, come presumibilmente dovevo essere io allora, le anime erranti che ci circondano potevano manifestarsi liberamente. Stando a lei, la nostra concezione del tempo è semplicemente una convenzione che abbiamo inventato per semplificare. In realtà tutto accade simultaneamente, il passato e futuro sono parte di un eterno presente. Siamo attorniati dalla presenza di coloro che sono esistiti prima, di quelli che esistono ora in altri luoghi e di chi esisterà in futuro. Sono cresciuta con la consapevolezza che il mondo è misterioso, che tutto è possibile e che esistono molte dimensioni della realtà che noi, con i nostri limitati cinque sensi, non possiamo cogliere. Solo un cuore aperto e un esercizio costante di immaginazione e intuizione ci permettono di intravedere frammenti della meravigliosa complessità dell’universo e della vita.

Per darvi un’idea della personalità di mia nonna Isabel, è sufficiente riportare questo aneddoto legato alla mia nascita.

Mia madre, Panchita, si sposò con l’uomo sbagliato: mio padre. Visse con lui quattro anni ed ebbe tre figli: una fertilità sbalorditiva. Tale fertilità è un tratto di famiglia ed è ereditaria, ma io ho avuto la fortuna che venisse inventata la pillola anticoncezionale, altrimenti avrei avuto una dozzina di bambini. Mio padre era diplomatico presso l’ambasciata del Perù quando io sono nata, nel 1942. Il mondo era sconvolto dalla seconda guerra mondiale e le comunicazioni e i viaggi molto difficili. Mia nonna e mia madre si scrivevano spesso, ma le lettere tardavano tantissimo ad arrivare o si perdevano nei labirinti delle poste. Entrambe praticavano instancabilmente la telepatia, ma funzionava altrettanto male che il telefono.

Grazie a un generale amico di famiglia, mia nonna riuscì a raggiungere Lima su un aereo militare in occasione della mia nascita. A quei tempi non esistevano metodi scientifici per determinare il sesso della creatura nel ventre materno, ma mia nonna e mia mamma non ebbero mai dubbi sul fatto che appartenevo al genere femminile e che il mio nome sarebbe stato Isabel. La nonna aveva elaborato una sua teoria – che trent’anni dopo venne confermata dalla psicologia – secondo la quale i nomi influiscono sulla personalità e a volte sul destino delle persone. È molto meglio chiamarsi Napoleone piuttosto che Giuda. La nonna voleva tramandarmi i suoi poteri paranormali e immaginò che il suo nome sarebbe stato una garanzia. Purtroppo, non andò così.

Panchita partorì in una clinica molto moderna e molto cara, dove le fecero l’anestesia non appena arrivò e quindi mi mise al mondo completamente addormentata. Quando si svegliò voleva vedere la bambina, ma le fu detto che per via del regolamento non gliela potevano portare fino alle sei del pomeriggio. Mia madre pretese di vedere sua figlia e siccome alzò la voce e scoppiò a piangere, le affibbiarono un’altra iniezione e dormì per altre otto ore. Quando di notte si svegliò, rimbambita dai farmaci, la nonna, che era seduta vicino al suo letto, le disse di vestirsi senza fare rumore perché dovevano scappare da quel luogo pericoloso.

Mia madre obbedì e scivolarono con circospezione lungo il corridoio verso l’uscita della clinica. A metà strada Panchita commentò che non potevano andarsene senza la bambina. A mia nonna, che non aveva fatto mente locale su quel particolare, sembrò un rilievo ragionevole. “Aspettami qui, vado a prenderla” disse. Eludendo la vigilanza grazie al dono dell’invisibilità, si introdusse nella nursery. Le bambine avevano copertine rosa e i maschietti azzurre. Mia nonna prese la neonata della prima culla rosa, la nascose sotto il soprabito e uscì di corsa. Nel taxi che le portava a casa mia madre le domandò come aveva fatto a capire che quella era la sua bambina. “In effetti non ne sono proprio sicura, ma non ha importanza, i neonati sono tutti uguali e assomigliano tutti a Winston Churchill” rispose lei.

Questo aneddoto mi ha accompagnato nel corso dell’infanzia. Veniva raccontato spesso in famiglia come la cosa più divertente del mondo. Quanto a me, ho sempre nutrito il dubbio che la nonna avesse acciuffato la neonata sbagliata, e quindi che ero cresciuta nella famiglia che non mi toccava e che sto vivendo la vita di un’altra donna.

Avevo quasi tre anni quando mio padre andò a far baldoria su uno yacht con un gruppo di amici e non lo rivedemmo più. Semplicemente non tornò a casa, e non perché era morto o aveva perso la memoria, ma perché gli girava così. Mia madre rimase sola a Lima con me, mio fratello Pancho di un anno e mezzo e mio fratello Juan appena nato. Cosa poteva fare Panchita, a ventiquattro anni con tre bambini e senza marito? Ritornò in Cile a casa dei genitori.

Sono certo che la mia vita è il mio carattere sarebbero stati più dolci se mia nonna Isabel fosse rimasta con noi, ma morì per una leucemia fulminante portando via con sé magia e allegria. Sono cresciuta in una casa cupa. Mio nonno Agustín si trasformò in un vedovo da tragedia, si vestì di nero dalla testa ai piedi, dipinse i mobili di nero, proibì fiori, dolci, musica e feste. La casa si chiuse in un lutto che sarebbe durato otto anni.

La nonna Isabel ispirò il personaggio di Clara, chiarissima, chiaroveggente, del mio primo romanzo. Il nonno Agustín, ragionevole e severo, è Esteban Trueba, e la dimora in cui trascorsi la mia infanzia è la Casa degli Spiriti che diede il nome al libro.

Sono trascorsi più di settanta e passa anni da quando Isabel Barros si è congedata da questo mondo, ma è sempre rimasta con me. Ho una sua fotografia sul comodino e un’altra vicino al computer. Quando sono triste e preoccupata o quando l’ispirazione viene meno, la chiamo. E lei arriva. La sento con me, mi sussurra all’orecchio, mi fa compagnia e mi consola.

E ora è venuto il momento di parlare di mia madre, Panchita. Sin da quando ero molto piccola i ruoli erano invertiti, sono sempre stata io la madre protettrice, mi chiama mamita ed è lei a essere la mia bambina. Non ho ricordi di conflitti nel nostro rapporto, ma può darsi che la memoria mi stia tradendo. Siamo molto diverse; io sono sempre stata una provocatrice e appena ebbi l’uso della ragione mi ribellai contro l’autorità: il nonno, gli zii, i preti, eccetera. Facevo obiezioni su tutto, non potevo accettare le ingiustizie del mondo, che i ricchi avessero tanto e i poveri così poco, che il potere fosse nelle mani degli uomini e che invece mia madre non avesse una disponibilità economica sua, dovesse obbedire a suo padre e al fratello maggiore, fosse priva di libertà e che a nessuno interessassero la sua opinione e i suoi sentimenti. Panchita  era molto sensibile e lagnosa, soffriva di terribile emicranie e aveva la fama di essere cagionevole di salute. Probabilmente stava sempre poco bene perché era il suo modo di fuggire dalla realtà. La verità è che mia madre è forte come un gladiatore, non è mai stata colpita da una malattia seria né si è mai rotta un osso e sono certa che vivrà più di un secolo. Forse ciò di cui aveva bisogno nella sua giovinezza era un antidepressivo, ma nella mia famiglia l’idea di rivolgersi a uno psicologo era inimmaginabile, come lo è tuttora. Gli psicologi sono per i matti e per gli argentini. Io sono l’eccezione, ma alle sedute  ci vado di nascosto.

Mia madre non era felice e io non volevo essere come lei, bensì come il nonno, forte e libero. Volevo proteggere mia madre perché non dovesse dipendere da nessun altro se non da me.

Nella pubertà la mia ribellione si trasformò in rabbia nei confronti degli uomini. Ovviamente non sapevo nulla del femminismo, concetto sconosciuto in Cile a quell’epoca: stiamo parlando degli anni ‘50. In famiglia pensarono che fossi andata fuori di testa o che fossi posseduta da un demonio. Mia madre, spaventata, accettava la logica delle mie argomentazioni contro il maschilismo, ma mi metteva in guardia dal pericolo di sfidare la società. Alcuni anni dopo, quando mi ritrovai tra le mani i libri delle femministe americane ed europee, scoprii che esistevano migliaia di donne che provavano i miei stessi sentimenti e che avevano formato un movimento e sviluppato un linguaggio articolato, intelligente e perfino umoristico per sfidare il patriarcato. Allora fui in grado di annunciare a mia madre che non ero impazzita e nemmeno posseduta da Satana: semplicemente ero femminista. Lei non aveva mai sentito quel termine e pensò si trattasse di un nuovo culto religioso di quelli che si diffondevano in Cile. Quando le spiegai il senso, mi disse sottovoce che potevo essere quel che mi pareva tanto lei mi avrebbe sempre appoggiato, ma che, per favore, non lo rivelassi ad altre persone, in particolar modo al nonno. Nessuno mi avrebbe capita. Panchita temeva che sarei stata oggetto di aggressioni e rifiuti – cosa che naturalmente si verificò – e che nessun uomo mi avrebbe voluto, ma in questo si sbagliò. Comunque non cercò di imporsi.

Il segreto del nostro rapporto è affetto incondizionato, accettazione reciproca, rispetto e senso dell’umorismo. È stata Panchita a stabilire questa formula da prima che io nascessi; è stata lei a gettare le basi per una straordinaria relazione madre-figlia, esattamente come aveva fatto mia nonna Isabel con sua figlia, Panchita. E come ho fatto io con mia figlia Paula e mio figlio Nicolás.  Amore incondizionato, accettazione, rispetto e senso dell’umorismo. L’umorismo è fondamentale. Nei momenti più tragici, quando abbiamo avuto conflitti o abbiamo dovuto affrontare separazioni, l’esilio, la povertà, divorzi e lutti, l’ironia e il sorriso ci hanno salvati.

Panchita era una ragazza talmente carina da far fermare il traffico. A quel tempo vigeva il pregiudizio secondo cui una donna bella doveva essere un po’ scema. Probabilmente è per questo che non si è mai parlato della sua bellezza. Va detto poi che era anche creativa e molto intelligente, ma le toccò nascere in un’epoca in cui le ragazze della sua classe sociale in Cile avevano un orizzonte molto limitato. Fu educata nell’ambiente protetto della sua famiglia che la preparò per essere sposa e madre. Una volta abbandonata dal marito, gli diede riparo il nonno che preservava con zelo la reputazione di quella figlia con tre bambini senza marito, perché le malelingue erano sempre pronte a diffondere pettegolezzi. I pretendenti che assillavano Panchita erano a caccia di un’avventura facile. Nessuno faceva davvero sul serio, finché non apparve l’unico innamorato disposto a farsi carico anche dei suoi figli.

Avevo undici anni quando arrivò l’uomo che avrebbe rimpiazzato il padre che non avevo avuto. L’ho sempre chiamato Tío Ramón. Ormai è molto anziano, ha appena compiuto 101 anni, ma continua a essere il mio miglior amico e confidente. Le cose non sono sempre andate così. Per dieci anni l’ho odiato perché non volevo condividere mia madre con lui e perché era molto machista, esattamente la cosa che più mi irritava nella fase del mio incipiente femminismo. Ma alla fine si guadagnò il mio affetto; imparai ad apprezzare le sue innumerevoli virtù e a chiudere un occhio sui suoi difetti, che non sono frutto di un cuore meschino, ma dell’educazione che ha ricevuto e del suo contesto sociale.

Anche lo zio Ramón era diplomatico, come lo era stato mio padre. E ciò comportava cambiare ogni due anni paese, lingua, amici e scuole. Ne avevo sedici quando ci sorprese la guerra civile in Libano e lo zio Ramón dovette far rientrare noi ragazzi in Cile, mentre lui se ne andava con mia madre in Turchia. Tornai alla casa del nonno a Santiago.

Fu allora che iniziò la corrispondenza con mia madre che ci ha tenuto strettamente legate per il resto della vita. Lei si trovava ad Ankara e io a Santiago, la posta era lenta come ai tempi di Michele Strogoff, il famoso corriere dello zar; era impossibile mantenere una conversazione, ma l’importante era essere in contatto. Scrivevamo tutti i giorni e spedivamo le lettere con l’incertezza di chi mette un messaggio nella bottiglia e la lancia in mare. A volte per due mesi non arrivava nessuna lettera e poi ne arrivavano venti insieme.

Io e Panchita abbiamo praticato questa frenetica corrispondenza per tutta la vita. La lettera giornaliera col tempo è diventata un’abitudine radicata come lavarsi i denti. Che cosa si può scrivere giorno dopo giorno? Quello che appunteremmo su un diario, cioè  tutto quello che ci capita e ci passa per la testa, dalle ricette di cucina ai sogni erotici, di cui entrambe siamo vittime con una certa frequenza. Grazie alle lettere ci conosciamo meglio che se avessimo vissuto insieme. La comunicazione epistolare è dolce, affettuosa, divertente e di assoluta confidenza. Non c’è niente che non possiamo scriverci, persino le cose che probabilmente non ci diremmo di persona. Non abbiamo mai litigato, perché è molto difficile litigare per iscritto. Negli anni più complicati della mia adolescenza, quando di norma madre e figlie si attaccano reciprocamente come barracuda, noi eravamo separate da due oceani.

E più tardi, nel corso della vita, quando abbiamo avuto divergenze e conflitti, li abbiamo risolti sulle nostre pagine. La scrittura obbliga a mettere un freno alle emozioni e a definire quel che si pensa e si prova. Quando si cerca l’aggettivo giusto per descrivere qualcosa, si guadagna in chiarezza. Quando cerchiamo di spiegare qualcosa in una frase, siamo obbligati a ragionare. Il semplice gesto di inserire la lettera in una busta o di inviare un messaggio di posta elettronica ci concede qualche secondo per pensare. Entrambe abbiamo imparato che se siamo in rotta il messaggio non va mai spedito subito, bisogna aspettare fino al giorno dopo. Così le emozioni si raffreddano un po’ e la mente è più sgombra.

Come si fa a ricorrere a questo sistema tra madri e figlie che vivono insieme o vicine? È molto più difficile, ma ce la si può fare. Con mia figlia Paula raramente ci sono state  incomprensioni, ma quando capitava ci attenevamo ad alcune regole. Prima di tutto, buone maniere, vietato alzare la voce, insultarsi o sbattere le porte. Secondo, rimanere aderenti al tema senza uscire dai binari. Se, per esempio, non le davo il permesso per andare una festa, la discussione verteva sui motivi per cui le impedivo di andare a quella festa in particolare, e non tiravamo in ballo le feste in generale, o quanto mi era antipatico il fidanzato di turno di Paula, o la sua sensazione che io fossi una madre negligente, eccetera, eccetera.  In linea di massima arrivavamo a un accordo salomonico.

Con i miei due figli le cose sono andate benissimo grazie alla formula magica di mia nonna e di mia mamma. Si inizia con l’amore incondizionato; in sostanza, non ho cercato di cambiarli né di impormi. Ho accettato che fossero profondamente diversi da me, cosciente che appartenevano a un’altra generazione a un’altra epoca e che pertanto di certe cose ne sapevano più di me. Ho accettato anche che commettessero errori, sapendo che non avrei potuto proteggerli dalle batoste della vita. Ho rispettato le loro decisioni anche quando non ero d’accordo, e li ho trattati con lo stesso rispetto con cui pretendo di essere trattata. Nicolás ha compiuto cinquant’anni e questa formula continua a essere la base della nostra magnifica relazione. Vedo che anche lui vi ricorre con i suoi figli, i miei nipoti. E sono convinta che se Paula fosse viva, saremmo ottime amiche, come siamo ottimi amici io e Nicolás.

Per vari decenni io e Panchita abbiamo usato le poste ordinarie, poi il fax e ora i messaggi elettronici. Mia madre ha novantasei anni, vive con lo zio Ramón nella sua casa di Santiago ed è perfettamente lucida. Continua a scrivermi ogni giorno, esattamente come faccio io. Quando mi innamorai di un americano ed emigrai in California, mi venne l’idea di collezionare le lettere. Fino ad allora non l’avevo fatto e quella corrispondenza impazzita era andata perduta nell’incertezza dei viaggi e dell’esilio. Dal 1987 lei conserva le mie lettere a Santiago e io le sue in California. A dicembre lei mi restituisce le mie e io le metto assieme alle altre, le archivio in ordine cronologico e le sistemo in contenitori di plastica. Ho più di trecento contenitori e in ognuno ci sono tra le seicento e le settecento lettere. Gran parte della vita di entrambe, compreso il particolare più insignificante, è custodita in quei contenitori. Per timore che l’usura del tempo o qualche disgrazia, come un incendio o un’inondazione, possano distruggere questo tesoro, le ho fatte digitalizzare e ora sono al sicuro per sempre nel fantastico limbo della tecnologia moderna. Queste lettere sono la cosa più preziosa che ho. Se mia madre morirà prima di me, potrò leggere una sua lettera ogni giorno finché sarò in vita.

Ora è arrivato il momento di parlarvi di Paula. Mia madre dice che sono stata generata durante la luna di miele, sull’imbarcazione che la portava con quel  marito nuovo di zecca da Valparaíso, in Cile, al porto di Callao, in Perù. Siccome sono stata generata in piena navigazione, il mio destino è quello di eterna pellegrina, viaggiatrice  inguaribile, esule politica ed emigrante, sempre straniera ovunque. Panchita dice anche che sin dal primo momento sapeva di aspettare una bambina. Non so se lo sapeva o se gliel’aveva rivelato la nonna Isabel grazie ai suoi poteri divinatori. Nel mio caso, anch’io ho saputo subito che aspettavo una bambina, perché la sognai. Nel sogno si chiamava Paula, aveva più o meno due anni e indossava un soprabito e un cappellino scozzesi. Quel sogno fu talmente vivido che quando Paula arrivò ai due anni, le feci un soprabito e un cappellino a quadretti, come quelli del sogno, per portarla a Ginevra a conoscere i nonni, Panchita e lo zio Ramón.

Paula nacque saggia. Delle persone come lei si dice che possiedono un’anima antica. Non credo nella reincarnazione, impossibile dal punto di vista aritmetico, ma mi piace l’idea di una persona che viene al mondo spiritualmente già formata. Da bambina Paula era molto magra e pallida, totalmente inappetente e darle da mangiare era un’impresa; l’unica cosa che le piaceva era la Coca-Cola. Lo zio Ramón la sedusse con la storia che lui era il proprietario universale della Coca-Cola e che chiunque volesse berla doveva chiedergli  il permesso. Peraltro era anche proprietario dell’acqua nel lago di Ginevra, era un principe ed era immensamente ricco. Paola credette a queste storie fino ai quattordici anni.

Cosa posso dire di mia figlia che non sembri agiografico? È sempre stata molto più matura e ragionevole di me. Era materna e protettiva con suo padre e con suo fratello Nicolás, più piccolo di lei di tre anni. Aveva una mente organizzata e precisa, assetata di conoscenza e dotata di ottima memoria. A dodici anni chiese come regalo di compleanno un corso di francese. Nessuno nel nostro giro parlava francese, ma a lei piacevano le canzoni di Edith Piaf. A tredici anni chiese un altro corso di francese, come pure a quattordici e a quindici. Non le sentii pronunciare nemmeno una parola in quella lingua fino a molto dopo, quando le chiesi di accompagnarmi a presentare uno dei miei libri in Francia, dove lei non era mai stata. Mi annunciò che avremmo noleggiato un’automobile in aeroporto, idea che mi parve assurda, ma attenendomi alla formula del rispetto reciproco, acconsentii. Allora il GPS non esisteva ancora. Paula memorizzò una mappa di Parigi e guidò senza esitazioni dall’aeroporto all’hotel, dove alla reception comunicò in perfetto francese. Dubito che abbia avuto altre occasioni di parlarlo dopo quel viaggio memorabile.

Paula ereditò qualcosa della bellezza gitana di sua nonna Panchita e senz’altro ereditò la spiritualità di sua bisnonna Isabel. Passò la vita a cercare Dio dappertutto e prima di entrare in coma mi confessò che non l’aveva trovato. Non le interessò mai nulla di materiale. Si vestiva quasi sempre con blue-jeans, scarpe da tennis e una maglietta bianca di cotone. Portava i capelli lunghi e scuri legati in una coda con un fazzoletto, non usava trucchi né gioielli. Aveva bisogno di molto poco e tendeva a regalare tutto. La frase che ripeteva più spesso era che si ha solo ciò che si dà. Studiò psicologia e decise di specializzarsi in sessuologia. In un’occasione  in cui mi dovevo recare ad Amsterdam mi diede una lista di articoli di cui aveva bisogno per i suoi studi. Capitai in un negozio di un quartiere dalla dubbia reputazione in cui una signora con l’aspetto da professoressa di matematica mi vendette video pornografici con strane combinazioni tra persone e animali, trapezi e persino una sedia a rotelle, peni dalle dimensioni ottimistiche e altri ammennicoli di gomma, alcuni dei quali dai colori fluorescenti che brillavano al buio. Passai un momento di terribile imbarazzo all’aeroporto di Caracas quando mi aprirono la valigia e fui costretta a spiegare agli agenti che quegli oggetti non erano per me, ma per mia figlia. A quell’epoca Paula aveva un fidanzato siciliano che aspettava che lei imparasse a cucinare la pasta per sposarla e fare molti figli. Esattamente come avevo detto a Paula, l’amore finì perché il fidanzato non gradiva che lei si dedicasse a studiare gli orgasmi di altri uomini.  Circostanza che non si verificò, perché Paula non riuscì a trovare lavoro in questo campo in Venezuela. Ben presto apparve un nuovo fidanzato, Ernesto, e Paula si dedicò al volontariato lavorando come psicologa familiare, prima nei quartieri meno raccomandabili di Caracas, e poi a Madrid, dove si stabilì con suo marito nel 1990.

A quell’epoca io risiedevo in California, mi ero sposata con un americano e stavo vivendo delle situazioni complicate, lontana dai miei figli, intenta a imparare l’inglese, mentre cercavo di adattarmi a un paese che mi risultava incomprensibile e con tre figliastri tossicodipendenti e delinquenti. Spesso telefonavo a Paula a Madrid per chiederle consiglio a proposito di uno dei melodrammi in cui ero coinvolta e la sua risposta invariabilmente era: “Mamma, qual è la cosa più generosa che puoi fare in questo caso?”

Questa frase – qual è la cosa più generosa che si può fare in questo caso? – riassume lo spirito della fondazione creata in onore di Paula, la cui morte prematura mi ha spezzato il cuore.

Ho scritto un libro di memorie su mia figlia. Si chiama Paula, come lei. Ho anche raccontato migliaia di volte il dramma della sua breve vita e non voglio ripeterlo qui. Ricorderò solo che Paola era affetta da un raro mutamento genetico denominato porfiria, ereditato dal ramo paterno. Ne soffrono anche Nicolás e due delle miei nipoti. Non è curabile, ma si possono prevenire i sintomi e anche se si presenta una crisi, non necessariamente è mortale.

Paula si era appena sposata e si trovava a Madrid dove suo marito Ernesto lavorava. Ebbe una crisi di porfiria e fu ricoverato in ospedale il 6 dicembre 1991. In quella struttura lavorava uno specialista in porfiria, ma era via e arrivò solo tre giorni dopo, quando Paula era già entrata in coma. In rianimazione si verificò un caso di negligenza molto grave e il risultato fu un danno cerebrale severo. L’ospedale tacque sull’accaduto per cinque mesi. A me e a Ernesto, che trascorremmo quei cinque mesi nei corridoi dell’ospedale in un’attesa infinita, dissero che Paola si sarebbe ripresa. Alla fine, quando ammisero che si trovava in stato vegetativo, decisi di riportarla a casa in California, con un volo di linea della United Airlines. Creammo una zona isolata in prima classe e Paula poté viaggiare con un’infermiera e tutto ciò di cui aveva bisogno una paziente in quelle condizioni. A Washington bisognava cambiare per San Francisco. Oggi, con le misure di sicurezza estreme e la diffidenza nei confronti degli immigrati, sarebbe impossibile per chiunque nello stato di Paula e solo con un visto turistico riuscire a entrare negli Stati Uniti. Ma all’epoca fu possibile. Il senatore Ted Kennedy mi conosceva per via dei miei libri e mandò due persone del suo staff ad aspettarci in aeroporto. Paola fu portata in barella insieme all’infermiera in un sala privata dove rimase finché ci imbarcarono sull’altro aereo. A San Francisco la attendeva un’ambulanza e un’ equipe medica.

Mia figlia trascorse gli ultimi mesi nella nostra casa, circondata dalla sua famiglia, suo fratello, sua madre, suo nipote Alejandro di due anni e la nipotina Andrea appena nata. Ernesto veniva a trovarla tutte le volte che il lavoro glielo permetteva. Il primo giorno a casa, una gatta randagia entrò dalla finestra e depositò un uccello morto sul suo letto, quasi una sorta di offerta. Non riuscimmo a cacciarla. Si installò presso Paula e non si separò da lei fino a quando morì, esattamente un anno dopo, il 6 dicembre 1992. Sono sicura che la gatta fosse l’incarnazione dello spirito della nonna Isabel, venuta dall’Aldilà per stare con la bisnipote.

Sono stata accusata di ricorrere al realismo magico quale trucco letterario per compiacere i lettori che lo associano all’America Latina. Non è un trucco. Scrivo come vivo, come sento, come ricordo e come intendo la realtà. Esattamente come mi insegnò mia nonna, accetto che il mondo sia misterioso. Vivo e scrivo mantenendomi aperta a quelle dimensioni misteriose che i critici denominano realismo magico e che tutti sperimentiamo sotto forma di coincidenze inspiegabili, premonizioni, sogni rivelatori o profetici, miracoli, visioni, diverse forme di chiaroveggenza,  potere dell’intuizione o dell’astrologia, eccetera, eccetera. Purtroppo non vedo fantasmi, come vorrei, ma avverto sempre la presenza di mia nonna Isabel e di mia figlia Paula, come pure quella di mia madre, che è viva ma è molto lontano, laggiù in Cile. La catena femminile di madri e figlie che ha caratterizzato la mia famiglia non si è interrotta con Paula, perché prosegue nelle mie nipoti e perché la morte è un inciampo ma non un ostacolo per la comunicazione e l’amore.